Recentemente, visitando un amico, mi fu detto che il traghettatore del fiume S. era deceduto. Sulla via versa casa passai al suo traghetto. Si, la sua barca era là, anche la campanella. I gerani sul davanzale erano già un po’ avvizziti.
Quando suonavi la campanella egli non usciva immediatamente. Vuotava la pipa, faceva un segno sul foglio dove smetteva di leggere e appariva sulla soglia della sua garitta. Scrutava l’altra riva del fiume per assicurarsi che non erano ragazzacci. Quando vedeva che era buona gente saliva sulla sua barca e cominciava a remare. Ti lasciava salire ma non remava via immediatamente. Ti guardava un po’ di tempo con occhi neri come carbone su una faccia di mogano con mascelle scolpite. Poi diceva a volte: “Fai troppo.” e cominciava a remare.
Mi ricordo che una volta risposi: “Forse fai troppo poco?” Abbbassò subito i remi e cominciò a parlare. Non so come sia riuscito ma rimanemmo in mezzo al fiume senza derivare. La campanella tintinnò alla riva ma lo ignorò. Fu una perfetta illustrazione della sua filosofia che la gente fa troppo: non devi fare due cose – parlare e remare – nello stesso tempo. Sempre concludeva i suoi discorsi sul tema “Fare troppo nella vita” con la stessa frase: “Nella tua ultima camicia non ci sono tasche.”
Voleva dire con questo che quando muori non puoi prendere niente con te nell’eternità. Perciò ogni aspirazioni a soldi , proprietà o successo nella vita sono prima di tutto fatica sprecata. Un uomo saggio cerca di contemplare e niente di più. Mi guardavo dal cominciare una discussione su quell’opinione di granito, certamente con qualcuno che la viveva. Alla sei arrivava alla sua casetta di legno con le pareti disadorne e una piccola finestra affacciata sull’acqua. Una tavola e una sedia di vimini, no luce perché quando si faceva buio se ne andava. Dove? Nessuno lo sapeva. Ma la mattina dopo era di nuovo là.
A volte mi invitava a entrare nella sua casetta. Si sedeva sul bordo della tavola, ma prima metteva un cartello davanti alla finestra con il messaggio: “Non ci sono” Poi, cominciava a parlare. Non era molto erudito, produceva i sui pensieri lentamente e con un po’ di difficoltà. Ma era comunque affascinante ascoltare i sui argomenti rudimentali. Che quelli erano contestabili non gli veniva in mente. Quando lo contradicevi ripeteva semplicemente la sua asserzione, come se fossi un bambino che non aveva capito ciò che lui voleva dire. Quando allora dicevi che non eri d’accordo con lui ripeteva ancora una terza volta il suo argomento, e sorrideva benevolmente. Non perdeva mai la sua pazienza, e neanche la sua convinzione di avere ragione. Essa era che l’uomo era creato per contemplare, niente di più. Non devi volere niente, non aspirare a qualcosa, devi solo “essere”, ma in un modo superiore.
Come in tutte convinzioni che sono quasi giuste c’è un lato pericoloso. Nel suo caso forse per dare un senso a una vita fallita. Certo, anche questo mostra una certa saggezza. Ma è pur sempre una fuga dalla realtà, un’uscita di emergenza. Non parlava mai della sua vita anteriore. Che aveva fatto prima di arrivare qui al traghetto? Non so nemmeno il suo nome. La gente lo chiamava “Kobus Knol.”
La sua barca è ora abbandonata, il traghetto è stato modernizzato. Colui che solo “era” non “è” più.
